Intervista a Camillo Carrea

Titolo : L’ultima luna

Editore : Lettere Animate (2 ottobre 2018)

Lingua : Italiano

Lunghezza stampa : 160 pagine

Posizione nella classifica Bestseller di Amazon: n. 80,958 in Kindle Store 

n. 9,094 in Narrativa contemporanea

n. 82,824 in Letteratura e narrativa 

-Buongiorno Camillo, potresti presentarti per noi che ti leggiamo?

Buongiorno. Scrivo da quando ero ragazzino, si può dire. Allora preferivo tenermi con me ciò che scrivevo, ovvero poesie e racconti.  In seguito ho deciso di partecipare a alcuni concorsi letterari, nei quali ho ottenuto buoni risultati, i quali mi hanno incoraggiato a cercare editori che potessero essere interessati ai miei scritti. Sono abruzzese, legato alla propria terra, e spesso i miei racconti sono ispirati ai luoghi in cui vivo, come nel caso de ‘L’ultima luna’. 


-Quali sono le tue passioni?

La lettura, innanzitutto. Credo che per poter scrivere bene si debba leggere molto. Diffido delle scuole di scrittura. Dostoevsckij, Manzoni, Calvino, Hugo, non ne hanno avuto bisogno, mi pare.


-E quali sono invece le cose che non sopporti?

La maleducazione, le violenza, anche coercitiva, la cattiveria gratuita e la prepotenza, specie contro i deboli e gli indifesi. 


-Da quando scrivi?

Come ho già detto, dall’adolescenza. Incoraggiato in questo, anche dal mio professore di Lettere che nei compiti in classe assegnava, a scelta, un racconto a tema libero. Sceglievo sempre questo, con ottimi risultati. 


-Che genere prediligi?

Storico, o storico fantasy. Amo unire la realtà e il soprannaturale, il mistero e la vita di tutti i giorni. Possibilmente condito, il tutto, da una dose di ironia. 


-Come nasce l’idea de “L’ultima luna”?

L’idea nasce dai molti racconti che aleggiano intorno al mio paese natio, un piccolo borgo dell’entroterra abruzzese. Storie passate, alcune vecchie di secoli. Leggende, fatti misteriosi, personaggi il cui alone di mistero è attivato fino ai nostri giorni.


-Da chi o cosa sei stato ispirato?

Certamente dai racconti dei miei nonni, veri e propri narratori, che, per l’appunto mi facevano conoscere il passato del mio paese, ma anche alcuni romanzi letti, come ‘Q’ di Luther Blisset, Fontamara di Ignazio Silone, oppure ‘Cristo si è fermato a Eboli’ di Carlo Levi. In genere chi ha letto ‘L’ultima luna’ non trova paragoni. E’ un romanzo a sé stante, che non ha nessun paragone. Quasi in genere nuovo.


-Hai scritto tutto d’un fiato o con pause importanti?

In realtà questo romanzo ha avuto due vite. La prima nel 2006 con ‘Prospettiva editrice’, poi con Lettere animate’ che, nonostante fosse stato già pubblicato, volle editarlo di nuovo nel 2018, e ora di nuovo in self, dal 2020.


-C’è un personaggio al quale sei più legato? 

Credo nonno Celestino, ma anche Toni Pincero, o Virgilio. 


-Perché hai scelto di parlare della realtà del “paese”?

Perché spesso il paese è un microcosmo del mondo. Con i suoi personaggi, le loro storie, tristi,  dolorose, o felici, i pregiudizi, gli odii, le meschinerie, ma anche la generosità e l’amore. 


-E perché hai scelto una voce narrante? 

Non è stata una scelta. Sono partito così, d’istinto, con me bambino fino a diventare ultracentenario. Si parte dal passato per giungere al futuro prossimo. 


-A chi consigli la lettura del tuo libro?

A chi ama il mistero, la Storia, l’inspiegabile, l’intreccio ardito di storie e di personaggi.

Estratto:

“Bonifacio aveva superato la mezza età quando i tre gemelli vennero al mondo. La madre era morta poco dopo, il tempo di ricucirle il ventre prima liscio e bianco e ora profanato, così come era stata violata la terra che Bonifacio aveva voluto ferire scaraventando nella piaga cemento e ferro. Tre vite nuove, giunte tutte insieme nel paese che stava morendo. Non accadeva da secoli, disse il paese. Quando Artemisia gli aveva detto che era incinta, Bonifacio aveva creduto a uno scherzo della moglie, che in fondo era ancora giovane. Un altro figlio dopo molti anni gli aveva dato pensiero. Si era sentito in colpa verso sua moglie e persino verso mio padre. La serenità gli era tornata per l’incoraggiamento di Artemisia e perfino di mio padre che, in verità, un fratello o una sorella li avrebbe voluti anni prima, allorché si era sentito solo, come molti dei ragazzi del paese, figli unici come lui. C’erano tanti figli senza fratelli né sorelle in paese.  E altrettante coppie che non avevano avuto neppure la soddisfazione dell’unico figlio. Troppe, per la verità. Questo era uno dei non pochi misteri sui quali il paese sembrava essere stato fondato. Tuttavia, Bonifacio non ebbe mai a impressionarsi per quello che si diceva sulla sua casa e su ciò che poi gli era accaduto. L’arrivo dei tre gemelli e la quasi simultanea morte di sua moglie non erano stati una punizione per il suo sacrilegio. La quercia millenaria, le streghe, i demoni e tutte le storie che si raccontavano erano solo idiozie. Bonifacio diceva che i suoi compaesani erano sciocchi e superstiziosi, seppure non riuscisse a dimenticare la notte in cui Artemisia gli era apparsa ai piedi del letto, bianca e fulgida alla luce lunare. Era di nuovo la piccola dea quindicenne che lo aveva sedotto venticinque anni prima. Quella notte, alla luce sfavillante della luna, lui l’aveva amata come la prima volta che l’ebbe nel suo letto, finalmente sua, la piccola dea. Quella notte in cui la luna era grande e brillava più del normale, avevano concepito i tre gemelli.


Bonifacio avrebbe voluto godersi la nuova casa. I debiti da saldare con i muratori non lo preoccupavano. A poco a poco li avrebbe pagati. Il suo mestiere di ciabattino portava buoni guadagni, seppure per poco tempo ancora. Aveva notato che la gente cominciava a buttare scarpe consumate appena, solo perché non erano più alla moda. I troppi soldi nelle tasche della gente avrebbero presto seccato la sua colla e resi inutili i suoi chiodi.

Anche suo figlio avrebbe contribuito a pagare il debito della casa che un giorno sarebbe stata anche sua e di quella ragazza dello Gliostro che stava per prendere come moglie. Ecco! Questo sì che gli dava pensiero! Quella ragazza che sarebbe diventata sua nuora, strana come tutti gli abitanti dello Gliostro. E questo era il meno. Ciò che lo rendeva davvero nervoso era che fosse la figlia di quel pazzo di Celestino il barista. Buon sangue non mente, ma neppure il cattivo! Bonifacio era sicuro che alla ragazza mancasse più di qualche rotella, visto che suo padre le aveva perse del tutto. Aveva tentato di convincere quel testone di suo figlio a non prenderla in moglie, e ciò non solo per il fatto che lui e Celestino si odiassero a morte da sempre. Non si rendeva conto del pericolo che correva. Non aveva voluto sentire ragione neppure quando lui gli aveva parlato del codice genetico. Quella ragazza era folle come suo padre e sua madre, e come la maggior parte di quelli del Quarto Gliostro! Con molta probabilità, anzi con assoluta certezza, avrebbe avuto un figlio pazzo. Dunque, sarebbe stata una grazia divina se la coppia fosse stata tra quelle sterili di cui il paese abbondava. E in questo aveva sperato, in cuor suo.

Bonifacio aveva inoltre fondati dubbi sul fatto che quella ragazza sarebbe venuta ad abitare con loro. Ogni volta che suo figlio la portava a vedere la casa in costruzione lei diventava inquieta, quasi smaniosa, e non vedeva l’ora di andar via, come se quel posto e quella casa le causassero dolore. 

Già! I matti del paese erano tutti rintanati in quel manicomio a cielo aperto che era lo Gliostro, e lui avrebbe avuto come nuora quella ragazza, figlia di gente strana e ribelle, superstiziosa e crudele. E se la grazia divina non fosse intervenuta, lui stesso avrebbe avuto una discendenza minata dalla pazzia e dalla demenza!

Il Quarto Gliostro era la parte bassa del paese, che si affacciava sulla Fossa dei corvi. Quegli uccelli facevano la spola da un lato all’altro dell’abisso nel fondo del quale scorreva il Turcano, un torrente impetuoso in cui si nascondevano, celate dalle acque limacciose, pietre acuminate sulle quali s’erano abbattuti, rendendoli irriconoscibili, i corpi delle vittime di agguati notturni. Si diceva che i corvi fossero le anime senza pace dei morti assassinati. 

Artemisia invece stravedeva per la figlia di Celestino e quando la vedeva le accarezzava il viso, rapita, come fosse sua figlia, e spesso gli tornava in mente la prima volta, quella in cui lei l’aveva presa in braccio e l’aveva baciata. C’era rimasto male. Quella era la figlia di Celestino, il suo nemico, e non gli andava che sua moglie la prendesse in braccio e la coccolasse. Soprattutto ricordava la frase che Artemisia le aveva sussurrato: “Bentornata in questo mondo”. 

Che aveva voluto dire? Che quella bambina era già stata al mondo? 

Forse Artemisia scherzava, o era pazza pure lei, anche se non era dello Gliostro. Però lui ricordava benissimo che la bambina, a quelle parole, le aveva sorriso cingendole il collo con le braccine. Quello di sua moglie era stato un lieve sussurro, ma lui l’aveva sentito, e quando aveva chiesto spiegazioni, Artemisia gli aveva risposto che aveva sentito male. Gli disse che era diventato vecchio e rimbambito, se sentiva frasi che lei non aveva pronunciato. Ma lui era sicuro: sua moglie aveva detto proprio quelle parole. Per giorni e giorni l’aveva osservato di sottecchi, pensando fosse impazzita, anche se doveva ammettere che era stata sempre un po’ strana, come quelli dello Gliostro. Se fosse stata di quel maledetto posto non sarebbe certo diventata sua moglie, nonostante Artemisia gli piacesse da morire.

Tornando alla casa, anche mio padre guadagnava abbastanza bene vendendo abbigliamento come ambulante. Il debito sarebbe stato saldato di sicuro. Del resto per pagare e per morire c’è sempre tempo, diceva Bonifacio, seppure quel tempo non era stato largo di manica con Artemisia.  

Il tempo si era fermato a quarant’anni per lei, senza scucire un giorno di più. Era morta il giorno del suo compleanno, ovvero la notte che era seguita al parto gemellare. Appena dopo il funerale Bonifacio aveva tentato di seguirla nella tomba sparandosi al petto col suo fucile da caccia. 

Artemisia era ancora una bambina quando Bonifacio l’aveva sposata. Quindici anni lei e vicino alla trentina lui, un bell’uomo, specie quando vestiva con la divisa nera della milizia fascista, la zazzera scura che gli pendeva della fronte liscia, gli occhi neri che si inchiodavano a lei. Quando lo incontrava ad Artemisia sembrava di stare nuda. Gli occhi di Bonifacio le trapassavano i vestiti e… La facevano star bene, molto bene, persino troppo, e si vergognava di questo. 

Quando morì, il paese disse che il suo cuore s’era fermato a causa di quel parto grandioso e anomalo. A quella età “concepire tre gemelli era inconcepibile” dissero in molti, ripetendo, testuali parole, quello che aveva detto Domenica, la levatrice. 

Che fosse stato il diavolo che aleggiava ancora intorno a quella quercia maledetta a ingravidare Artemisia? Il paese disse pure questo, riportando fedelmente quello che aveva confidato Nicola, il sagrestano, a Cecchina, la fruttivendola. Nicola le disse che aveva sentito il prete parlare in sagrestia con qualcuno, gli era parso dalla voce il Cavaliere, che era uno dei pochi uomini colti del paese, oltre a esserne il sindaco. 

Quello che poi era accaduto appena dopo il funerale di Artemisia era stato sulla bocca del paese per tutto l’anno che era seguito... A un certo punto, dopo che Artemisia era stata interrata, nessuno sapeva più dove fosse Bonifacio. Lo cercarono, finché incontrarono una bambina vestita di bianco.

“È qui vicino, nella rimessa degli attrezzi. Fate presto” disse la bambina. 

Trovarono difatti Bonifacio nella rimessa, che si trovava poco lontano dal cimitero, al centro della vigna. Era riverso sul suo sangue, il fucile ancora caldo. Aveva cercato di farsi scoppiare il cuore con una pallottola. Avevano sentito il colpo di fucile, qualche minuto prima, ma nessuno avrebbe potuto immaginare… 

Bonifacio non ce l’aveva fatta a seguire Artemisia a causa di una malformazione congenita.

-Salutaci!

Un caro saluto a tutti voi, e grazie di cuore! 




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